Fattucchiera, Maliarda, Megera…tutti sinonimi per indicare la Strega, quella figura femminile che per le credenze di varie culture era dedita alla pratica della magia, dotata di poteri occulti derivati dall’essere in contatto con entità soprannaturali.
A volte erano solo donne studiose di erbologia, cristallomanzia, stregoneria o semplicemente capaci di opporsi all’intera società umana tanto che per alcuni secoli furono oggetto di persecuzione da parte Chiesa.
Nella metà del XVIII secolo, lo studioso trentino Girolamo Tartarotti, giudicò infondate le teorie sulla stregoneria, frutto di superstizione piuttosto che di logica, di indagine scientifica ed ortodossia cattolica.
Quale periodo migliore, se non quello di Halloween, per farvi compiere un breve giro sulle più famose leggende di Streghe italiane.
TRIORA – LA SALEM D’ITALIA
Nel 1587 la Valle Argentina, nell’appennino Ligure, era vittima di una grave carestia.
Il paganesimo fortemente combattuto dai cristiani, soprattutto nel mondo contadino, attribuiva molto spesso le cause di una carestia o di una malattia al malocchio e alla stregoneria.
Il podestà di Triora, Stefano Carrega, convinto dell’esistenza di un gruppo di streghe specializzate in sabba, procede con gli arresti e chiede al doge di Genova e al vescovo di Albenga di procedere all’invio degli inquisitori per poter iniziare il processo.
I 2 vicari inviati credevano entrambi ciecamente alla stregoneria e nel corso della messa da loro celebrata, istigarono la popolazione alla persecuzione iniziando una violenta “caccia alla Stregoneria”.
Girolamo del Pozzo, uno dei due inquisitori, raccolse le testimonianze dei trioresi circa le attività di stregoneria delle prigioniere e su queste si riversa un’ondata di accuse incredibili.
Seguirono una serie di feroci interrogatori accompagnati da inenarrabili torture.
Le sventurate erano donne che vivevano in modo non convenzionale, conoscitrici di rimedi naturali ed erbe mediche o che semplicemente praticavano culti lontani dalla dottrina dominante.
Furono da allora ricordate come le streghe di Triora: la maggior parte di queste donne (quaranta in tutto, più un uomo, Biagio De Cagne) erano di umili origini, residenti nel quartiere più povero del paese.
Tuttavia, ce n’erano anche di estrazione sociale più elevata.
Le cose sfuggirono presto di mano e molte donne morirono proprio a causa delle torture; la conclusione fu che tutte le vittime confessarono d’aver commesso ogni sorta di maleficio.
Per gli orrori perpetrati nei 3 anni successivi, Trioria, piccolo borgo in provincia d’Imperia, meritò il nome di Salem d’Italia.
Tra il 1589 e il 1590 l’orrore aveva finalmente termine: molte delle donne vennero rilasciate, altre scontarono penitenze relativamente blande.
Oggi, il paese di Triora non ha dimenticato quel periodo buio.
Lo dimostra il Museo Etnografico e della Stregoneria, che qui si trova e ospita i documenti e gli atti del tempo.
Anche la Cabotina, piccola costruzione che deve il suo nome a quello che nel 1500 era il quartiere più povero del borgo: qui, secondo la leggenda, si riunivano le streghe.
Infine, alle streghe di Triora è dedicata anche una festa: la Strigora, organizzata la prima domenica dopo il Ferragosto.
BENEVENTO: LA CITTÀ DELLE STREGHE
Benevento, anticamente chiamata Maleventum, era capoluogo di un ducato longobardo.
I Longobardi erano pagani ed adoravano il dio Odino che onoravano riunendosi davanti ad un grande albero di noce sulle sponde del fiume Sabato.
Per ottenere l’appoggio della Chiesa al fine di sconfiggere i Bizantini, il duca longobardo Romualdo, accettò di convertirsi, e con lui tutti i Longobardi, al Cristianesimo.
L’albero di noce, simbolo del culto di Odino, fu abbattuto e, secondo la leggenda, appena cadde in terra ne uscì fuori una vipera, simbolo di un legame satanico.
Alcuni continuarono a venerare gli Dei pagani, in particolare Iside, Diana ed Ecate e alcuni monumenti sparsi nella città ne sono testimonianza.
Si racconta che le streghe avessero l’abitudine di riunirsi, nelle notti tra il sabato e la domenica, attorno a questo albero per dare vita ai loro sabba, convegni di streghe in presenza del demonio.
L’arrivo al luogo avveniva rigorosamente in volo a cavallo di scope dopo essersi unte con l’unguento miracoloso che dava loro non solo il potere di volare, ma anche di rendersi invisibili a occhi indiscreti.
Le streghe di Benevento erano di 3 tipi: la Zoccolara, la Manolonga e la Janara.
La Zoccolara era la strega che di notte correva per i vicoli facendo riecheggiare il rumore dei suoi zoccoli e attaccando i passanti alle spalle.
Maria la longa era una donna morta cadendo in un pozzo, non trovando pace la Manolonga si divertiva a tirare giù nel pozzo chi si affacciava.
Le Janare erano donne nate nella mezzanotte di Natale o che non avevano ricevuto il sacramento della cresima in modo corretto, magari per un errore del sacerdote nel recitare la formula.
Avevano fatto un patto con il maligno: di giorno sembravano delle persone comuni, ma con il loro sguardo che tutto osservava, annotavano in mente i nomi di chi meritava la loro vendetta; di notte, perdevano le sembianze umane e si trasformano in entità disgustose: capelli disordinati, occhi demoniaci, pelle rugosa e lunghi artigli a mani e piedi scalzi.
La janara solitamente era un’esperta di erbe medicamentose e sapeva riconoscere quelle con poteri narcotici oppure stupefacenti.
Le usava nelle pratiche magiche, come la fabbricazione dell’unguento che le permetteva di diventare incorporea come il vento.
Contrariamente a tutte le altre streghe, la janara era solitaria e spesso aveva un carattere aggressivo.
Secondo la credenza popolare, le Janare, passando sotto le porte (ianua e janara significano infatti porta) si recavano per 3 notti di seguito nelle case di coloro verso cui nutrivano risentimento, si sedevano sul petto del malcapitato mentre dormiva e gli impedivano di respirare.
L’unico modo per fermarla è mettere una scopa di saggina davanti a tutte le porte: la Janara è costretta a contare ogni singolo filo della scopa, uno ad uno. L’arrivo dell’alba la fa scappare perché non riesce mai a finire il suo conto in tempo.
Queste donne erano assai temute dalla gente si pensava, infatti, che potessero anche causare aborti e deformità nei neonati. Avevano però un punto debole nei capelli. Secondo la tradizione, per poterle acciuffare bisognava afferrarle proprio per i capelli. Inoltre si diceva che chi fosse riuscito a catturare la janara quando era incorporea avrebbe guadagnato, in cambio della libertà, la sua protezione sulla famiglia per sette generazioni.
Questi luoghi, in cui ancora oggi si respira un’aria magica e intrigante, hanno ispirato non solo la produzione del famoso liquore “Strega” che si ricollega nel nome alle storie sulla stregoneria a Benevento, ma anche il Premio Strega, premio letterario istituito nel 1947 dalla scrittrice Maria Bellonci e da Guido Alberti, proprietario della casa produttrice dell’omonimo liquore.
CALCATA: IL BORGO DELLE STREGHE
A pochi chilometri da Roma, nella provincia di Viterbo, Calcata Vecchia, abbandonata nei primi anni del ‘900, quando il tufo su cui sorge fu erroneamente ritenuto instabile e pericoloso, dagli anni ’60 in poi è stata riscoperta e scelta come dimora d’eccellenza per artisti di strada, pittori, hippies, musicisti e attori che hanno deciso di vivere lontano dalla civiltà e dal mondo tecnologico per coltivare il loro estro.
Molti però la associano, secondo antiche leggende, alle streghe.
Calcata era ritenuto il centro nevralgico di energie primitive provenienti dal sottosuolo; l’abitato sorge su quella che un tempo era un’area falisca e secondo alcune storie popolari sembra che in passato, all’interno delle grotte sotterranee caratteristiche del borgo, venissero propiziati rituali magici tanto che, anche se le streghe non sono mai state avvistate, nelle notti di forte vento, per le strade sembra alzarsi il loro canto.
Calcata Vecchia è una meta gettonata specialmente nel periodo di Halloween, quando i colori dell’autunno tingono tutto il paesaggio di meraviglia e gli spiriti maligni si riversano sulla terra, quando il confine tra i due mondi è più sottile e il paese è pieno di feste in maschera e decorazioni a tema.
SAN FILI: IL PAESE DELLE MAGARE
A pochi chilometri da Cosenza, sorge il borgo medievale di San Fili, meta privilegiata di quanti fossero alla ricerca di estratti medici naturali per curare acciacchi e malanni, di filtri e legature d’amore e soprattutto delle donne che sapevano praticare lo sfascino, antico rituale a metà fra una preghiera ed un incantesimo capace di eliminare l’energia negativa che gli invidiosi potevano inviare consapevolmente o inconsapevolmente.
A San Fili pare che dimorassero le magare, una sorta di fattucchiere sapienti chiamate in causa quando, dopo giorni di cure mediche, i rimedi della scienza non sortivano gli effetti desiderati.
Il popolo non accettava l'idea dell'inguaribilità o dell'ostinatezza di alcuni morbi, tanto da pensare che il malcapitato fosse stata vittima di una “magarìa”, cioè di una fattura.
Le magare sono quindi quelle donne che oggi chiameremmo naturopate o erboriste che oltre alla conoscenza di erbe e rimedi naturali avevano anche saggezza popolare e una forte religiosità.
Secondo la leggenda, uscivano di notte per rapire giovani donne e bambini, per parlare con il vento e con la luna e per avere incontri col demonio e sapevano, inoltre, trasformare gli uomini in lupi.
La figura più affascinante di questo borgo è quella della Fantastica, una sorta di entità protettrice del paese che appare vestita in abito da sposa con lunghi capelli sciolti sulle spalle; man mano che si avvicina cambia sembianze diventando una creatura spettrale.
Alcuni dicono che sia praticamente “u spirdu” di una giovane donna morta tanto tempo fa in procinto di sposarsi e che la sua anima in pena navighi ancora in cerca di pace; altri sostengono che sia una giovane donna impegnata nella vana ricerca del proprio figlio defunto; altri ancora la identificano con una giovane donna di nome Stella, fucilata perché complice di brigantaggio.
A San Fili la Fantastica appare nei trivi che conducono fuori dal centro abitato, guarda il perimetro di tutta la cittadina e fa in modo che i bambini non oltrepassino tale perimetro; questa leggenda, infatti, è ancora narrata ai più piccoli per non farli allontanare giocando.
Uno dei luoghi prediletti della Fantastica è la balconata che si affaccia su un dirupo, conosciuto come “Zumpu da Fantastica”, situata nell'attuale piazza Francesco Cesario, nei pressi del bivio per Bucita, dove si dice che l'entità si manifesti, in particolare, ai bambini, nella speranza di ritrovare il suo.
Le magare erano temute, ma anche rispettate: di esse si provava ribrezzo ma nessuno le allontanava per timore di essere colpito da qualche “malìa”, ciò rafforzava il loro potere, perpetuandolo nel tempo.
Il primo fine settimana di agosto, il comune organizza l’evento “Le notti delle Magare”, che si svolge nel Centro Storico del Borgo e si compone di micro manifestazioni di diversa natura: premi letterari, performance artistiche e musicali, laboratori, proiezioni, mostre, fiere, degustazioni e vendita di prodotti tipici ed artigianali.
CECILIA FARAGÒ – L’ULTIMA FATTUCCHIERA CALABRESE
Siamo nel XVII secolo, nel Regno delle Due Sicilie dei Borboni; fra Zagarise e Soveria Simeri, piccoli borghi ai piedi della Sila, vive Cecilia Faragò che con la sua famiglia conduceva una vita tranquilla e agiata consentita dalle loro numerose proprietà.
Il marito, di salute cagionevole, era molto preoccupato della vita dopo la morte così, due preti spregiudicati, lo convinsero a donare tutto ciò che possedeva alla chiesa, con la promessa di una salvezza eterna.
Alla morte dell’uomo, i due ecclesiastici fecero di tutto per impossessarsi dei beni lasciati alla sua vedova, scatenando una guerra tra i due schieramenti.
Per averla vinta ordirono un colossale imbroglio accusando Cecilia di fattucchieria e l’evento scatenante fu la morte in circostanze apparentemente misteriose del canonico di Soveria, don Antonio Ferraiolo.
In quel tempo la Faragò era risentita non solo nei confronti dei due canonici ma anche del clero di Soveria per essere stata ridotta in miseria, tanto che più volte minacciò tutti gli ecclesiastici del luogo.
I due preti, ricorrendo a testimoni, fatti e circostanze ben orchestrate e abilmente congegnate, non ebbero alcuna difficoltà a far credere che la donna avesse provocato, con una magia, la morte dell’uomo.
Arrivarono anche a convincere la madre del defunto, la signora Vittoria Rossetti, che denunciò Cecilia per stregoneria.
I due canonici, senza l’autorizzazione del governatore della giustizia momentaneamente assente, incarcerarono la presunta strega, dopodiché si introdussero nella sua casa, presero unguenti, minerali e ossa che sarebbero stati utilissimi elementi di prova nel processo.
Nonostante tutto, la corte di Catanzaro dichiarò di non dover procedere contro la donna.
La signora Rossetti non si arrese e fece appello, contro il decreto, presso la Gran Corte della Vicaria di Napoli.
L’accusata, per nulla intimorita, nominò come proprio difensore Giuseppe Raffaeli, avvocato ventenne di Catanzaro che nonostante fosse alle prime armi dimostrò eccezionali capacità oratorie, straordinaria preparazione giuridica, medica e scientifica, dimostrando, partendo dalla cultura greca, la non esistenza della stregoneria e smontando uno ad uno tutte le accuse contro la donna.
Il processo si concluse con l’assoluzione dell’imputata.
La sua arringa fu così celebre, da spingere il re di Napoli ad abolire il reato di stregoneria.
La donna fu risarcita per la calunnia e l’ingiusta detenzione.
La vittoria di Cecilia fu la vittoria di tutti sul pregiudizio e lei diventò un’eroina civile ed esempio di femminismo.
La Calabria si rendeva protagonista di un momento storico assolutamente unico ed estremamente affascinante.